Paolo Campiglio

MARCELLO CORRÀ:
BINOMI, TRINOMI DI FORMA E PENSIERO
di Paolo Campiglio

Per accedere all’universo creativo di Corrà non basta accennare alla matrice fabrile che caratterizza le sue sculture, frutto, fin dalle prime prove, delle calde esperienze di carpenteria acquisite nel laboratorio paterno, poiché l’origine della sua creazione è da ricercarsi in un movente spirituale, del tutto estraneo alle terre e ai polverosi fuochi della fucina. Certo, quell’esperienza è stata una fondamentale presa d’atto della materia, dei suoi segreti, della mineralogia, della chimica degli elementi, nella coscienza di una forza domata, plasmabile, eppure risorgente, eternamente in lotta. Ma l’atteggiamento del giovane appare, ne siamo certi, disincantato e incline alle riflessioni teoriche più che ai gorghi ferrigni, fin da quella natura contemplata nella dimora appartata nel bosco o nelle lunghe passeggiate che del tempo hanno scandito i passi, le ore, nella coscienza di un flusso eterno dietro le cose del mondo. Un fascino che non poteva limitarsi alle attente e vigili presenze dell’Occidente, ad esempio, della mitopoiesi classica, che Corrà poteva riscontrare ogni giorno dalle sue osservazioni lente (benché la forma del mondo iniziasse a emergere dalla nebbia delle apparenze) bensì approdava ben oltre, a limpide fonti orientali, come di consueto nell’atteggiamento moderno: e l’artista si appassionava, in una nuova scoperta delle cose, alle letture della filosofia Zen, complice, in tali incursioni, l’amico Kengiro Azuma, da lui ammirato e seguito. Era il 1997 e Corrà, dopo essersi posto il problema del fare arte, dava vita alle prime sculture, come egli stesso tiene a spiegare in uno scritto: “una produzione improntata sul tema del Logos, termine usato dal filosofo greco Eraclito per definire il fuoco dotato di intelligenza, capace di creare qualcosa di nuovo attraverso la sua azione in grado di modificare la materia. Queste sculture sono costituite da solidi di acciaio satinato, lacerati in uno o più punti, fino a rivelare ciò che imprigionano al loro interno: corpi in movimento, uomini che lottano per trovare una loro dimensione, per raggiungere l’unicità negata da ciò che tenta ancora di fagocitarli. Acciaio freddo e asettico che cela al suo interno il calore e la forza del ferro arrugginito. Una sorta di “Yin e Yang”, due forme e due materiali diversi, antitetici che cercano di prevalere uno sull’altro, pur facendo parte di un’unità indivisibile”.
Tali riflessioni gettano luce sulle matrici antropologiche di Corrà, tese a coniugare l’Occidente eracliteo con la filosofia orientale, in un’osmosi che ha come riferimento l’uomo e il cosmo: eppure in quel primo ciclo di sculture resisteva una figurazione a cui, ancora realisticamente, lo scultore affidava il compito di rappresentare l’uomo in preda a forze contrarie, con connotazioni simboliche piuttosto elementari. Una figurazione che nasceva, oltretutto, dalla matrice immaginifica del corpo, nutrita, come in tutti i giovani nati negli anni Settanta, di sensazioni mediali postmoderne, tra il cartone giapponese e la scultura classica, tra Excalibur e la saga della Storia Infinita, tra il videogioco e le letture filosofiche.
Non si comprenderebbe, altrimenti, la successiva serie dei Guerrieri, della fine degli anni Novanta, sculture nettamente figurative che nell’immaginario in continuo divenire di Corrà si configuravano come una “seconda puntata” rispetto alla prima idea, in cui, seguiamo lo scritto autografo, “gli uomini dei Logos appaiono finalmente liberi, decisi a combattere e pronti a soffrire, memori delle precedenti battaglie contro il ventre d’acciaio che voleva soffocarli. I Guerrieri sono corpi costruiti a partire da un’intelaiatura scheletrica in ferro che viene poi ricoperta da placche e strisce di lamiera saldate tra loro. Il risultato è una sorta di “scarnificato-armatura” : infatti le liste di lamiera diventano al tempo stesso fibre muscolari e protezione metallica. In alcuni punti l’erosione di questa muscolatura-corazza rivela persino la struttura scheletrica sottostante. In altre zone placche di rame, piombo o alluminio ricoprono il corpo per sottolineare la presenza di un’armatura che pur consumata e logorata dalle battaglie (come del resto il corpo del guerriero), impone ancora la sua presenza. Dunque una scultura sofferente e lacerata ma dotata di grande forza. Fibre muscolari, ossatura e corazza allo stesso tempo. Un corpo in disfacimento a causa dell’usura, del tempo che passa, della sofferenza che si accumula e contemporaneamente un uomo in via di costruzione che col tempo prende sempre più forma. Ancora una volta torna alla mente la filosofia del TAO, compare l’immagine di Yin e Yang. Il guerriero affronta le battaglie e ne subisce le conseguenze, le ferite aumentano e con esse la sua esperienza. La sofferenza diventa forza,le fibre muscolari lacerate cicatrizzano e trasformano il corpo in armatura: ciò che è in disfacimento costruisce qualcosa di nuovo”.
Tra le righe di questi appunti emerge l’essenza dell’approccio di Corrà alla creazione artistica: ovvero la rappresentazione di pensieri in linee-forza o di soli elementi e relazioni che si attraggono e respingono, contengono il germe della distruzione e della rinascita. Insieme costituiscono una forma, ma possono vivere autonomamente come forme in sé.
Perduto nella logorata amalgama del ferro e delle sue limpide declinazioni, lo scultore affronta quindi gli elementi strutturali della geometria e la sua produzione volge, con il nuovo secolo, a una non-figurazione essenziale, di natura bifacciale: l’occasione della progettazione di una scultura astratta per il Premio Umberto Mastroianni, invitato da Martina Corgnati nel 2001, serve a Corrà per affrontare il passo decisivo allontanandosi da un approccio inutilmente realistico, quando, come si è dimostrato, di forme di pensiero egli veniva lentamente elaborando il senso ultimo, ispirandosi inizialmente agli sprezzanti incastri geometrici di Mastroianni, o a una lontana eco futuristeggiante. Nasce il fortunato ciclo delle Connessioni, in cui l’artista dà vita a una più libera grammatica geometrica di forme in connessione, cioè in avvicinamento, una nell’altra, ma non ancora connesse del tutto. Si tratta in genere di due o al massimo tre elementi in abbraccio o in via di allontanamento, in cui il riferimento totemico e rituale non appare casuale, ma evidentemente connesso con quell’immaginario d’ascia bipenne, di orditure di samurai, con allusioni, forse solo immaginate, alla saga di Thor e ad estetiche vichinghe, quando non a lame orientali, di cui l’artista sembra appassionato. Dunque a un’idea di lotta e difesa, distruzione per costruire, rinascita. A connettere le forme, brevi elementi di collegamento costituiti da barre filettate diventano parte dell’opera rivelando quelle strutture nascoste che l’artista amava suggerire fin dalle prime sculture, qui ricoperte quasi interamente dalla scocca di ferro ossidato. Afferma lo scultore, in quegli appunti preziosi riguardo al ciclo delle Connessioni, perdurante fino ai nostri giorni : ” trovo il modo di esprimermi attraverso forme assolutamente geometriche senza perdere la filosofia di base che ha da sempre accompagnato la mia produzione. Nelle Connessioni due elementi geometrici vengono uniti attraverso delle barre filettate per realizzare un’unica forma.
Anche in questo caso siamo di fronte a un’unità composta da due corpi che, pur essendo diversi tra loro, hanno occasione di armonizzarsi per creare una nuova realtà. Fondamentale per la realizzazione di queste sculture è l’utilizzo delle barre filettate che permettono di ottenere un equilibrio “dinamico” tra le due forme di base. Infatti le barre filettate si possono avvitare o svitare facendo avvicinare o allontanare i due elementi che compongono la figura finale. In questo modo è possibile osservare contemporaneamente i due corpi e la risultanza della loro interazione. Ogni situazione è composta da due forze che interagiscono integrandosi pur mantenendo le proprie identità. Un’unione “forte” non si realizza attraverso l’annichilimento delle due entità che si incontrano, ma, al contrario, valorizzando le diverse peculiarità che esse hanno. In questo modo due corpi costituiranno una forma, due pensieri si fonderanno in un’anima”. La morfologia delle situazioni plastiche create dal 2003 da Corrà si rifà inevitabilmente a una tradizione di scultura non figurativa italiana, dal carattere bifacciale, in un percorso che attraversa, senza che lo scultore ne abbia piena coscienza, maestri come lo stesso Mastroianni, Consagra, il primo Colla, e via fino ad Azuma, Icaro e Lorenzetti: in rapporto ai quali Corrà mantiene ancora un assetto schematico della rappresentazione, ravvisabile, tra l’altro, in opere quali Connessione, ferro (2003) o Connessione, ferro ossidato e alluminio (2004) fino a Connessione aerea, ferro ossidato (2004): qui le distanze tra gli elementi appaiono ricondurre a un unico modulo di separazione, seppur variabile, tuttavia iterato di volta in volta identico, in una sorta di voluta monotonia e ieraticità della visione.
Più libera da questo punto di vista, ma ancora all’interno di una sequenza precisa di occasioni plastiche, la serie dei Guardiani elaborata nel 2004, dove appare più insistita l’idea totemica e più netta la concezione alla base della creazione di Corrà, di assemblare forme di dialogo, che si ergono nello spazio con allusioni ad antiche armi, all’idea di difesa e offesa, distruzione e costruzione del nuovo sulla base di una rinnovata unione. Un percorso totemico che perviene a Katana, ferro acidato (2005) o alla più complessa e riuscita Samurai, acciaio Cor-ten (2005).
Nelle ultime prove, invece, che si riassumono in una scultura emblematica come Incontro, ferro acidato (2005), appare chiaro come lo scultore abbia tentato di uscire dallo schema ripetuto e abbia compreso, infine, che le forme giungono a un incontro voluto, cercato, poiché i due elementi (spesso si tratta solo di binomi, talvolta di trinomi) si cercano e si desiderano, dunque si torcono per avvicinarsi. Una metafora dell’amore universale che regge il mondo, di cui forse si era perduta traccia nella cortina difensiva delle battaglie totemiche e delle allusioni a lotte, pur nella ricomposizione finale, delle ipotesi precedenti. E’ un segno di speranza che, insieme, rivela tutto lo sforzo e la sofferenza della torsione, una sorta di metamorfosi apparentemente distruttiva, che mostra crepe della materia (ancora, il senso della rivelazione dell’interno che da sempre anima le ipotesi del giovane), come in un bacio voluto in un deserto di passioni.
Corrà Scultura

L’arte di piegare la materia alla bellezza

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